sabato 25 ottobre 2008

Quando il gioco si fa duro…

Le avventure grafiche. Quei videogiochi dove la trama si svela a poco a poco, tu nei panni del personaggio principale devi esplorare gli ambienti, raccogliere oggetti, risolvere enigmi di vario tipo, parlare con quelli che incontri…
Mi pare che si vada verso una semplificazione sempre maggiore del genere.

Mi spiego: la trama è importante, certo, è la molla che spinge il giocatore a proseguire. Ma non può esserci solo quello. Nei giochi di questi ultimi anni vieniamo portati per mano passo passo alla soluzione. Non possiamo mai morire, nemmeno se è previsto un combattimento. Non possiamo perdere o usare male un oggetto che poi ci servirà, non possiamo sbagliare strada, o affrontare un nemico prima di avere tutto il necessario per batterlo. Il massimo della difficoltà degli enigmi consiste nel propinarci qualcosa di macchinoso, tipo ricomporre un puzzle con una figura difficile da ricordare, indovinare delle interminabili sequenze di numeri e simboli…Insomma, si può rimanere bloccati, mai fare qualcosa di sbagliato che ci precluda la possibilità di continuare.

Cioè, sono giochi a prova di scemo.

Chi è vecchio come me si ricorderà che non è stato sempre così?

Ho presente un certo The Colonel’s Bequest, in cui si impersonava una ragazza che, andata nella villa di campagna di un’amica, assisteva al massacro di tutti i parenti presenti…Lo scopo era ovviamente quello di scoprire chi stava uccidendo tutti (l’ho scoperto solo leggendo la soluzione su internet molti anni dopo). Ecco, se non facevi attenzione ti trovavi morta anche tu: potevi cadere dalle scale, precipitare nella tromba dell’ascensore, farti tagliare in due da un’alabarda, prendere una campana in testa ecc. Inoltre l’avanzamento dell’orologio era causato da un evento ben preciso, tipo il ritrovamento di un oggetto o l’ingresso in una stanza, ma il gioco se ne fregava se tu in quel periodo di tempo avevi raccolto tutto quello che dovevi prendere e avevi visto tutto quello che c’era da vedere. Più sì che no, quindi, la notte degli orrori terminava senza che tu avessi scoperto un tubo, e grazie di aver partecipato.



La tua camera da letto...


Ma vogliamo parlare di Cadaver, (che nonostante il nome non ha nulla di horror) gioco di avventura/azione in cui un nanetto deve sfuggire da un castello pieno di trappole?
Questo gioco (del 1991) è un incubo.
Puoi raccogliere quasi tutto quello che trovi, ma solo pochi oggetti serviranno davvero, e dunque trovarli in quel bailamme è già un’impresa. Gli enigmi sono stati concepiti da qualcuno fumato, e il gioco è bastardo.


Si inizia da qui!

Un esempio?
Primo livello (il più facile, perché piccolo, e ogni tanto trovate qualche pergamena che vi suggerisce cosa fare). Siete obbligati a calarvi in un pozzo, ma la corda cade con voi. Come uscire da lì? Semplice, dice un libro: dovete buttare 6 gemme verdi nel lago sotterraneo (ovvio, no?). 4 gemme sono lì, le altre dovreste averle raccolte prima. Non le avete? Oh…peccato. Ma no, visto che è l’inizio siamo buoni: in via del tutto eccezionale, abbiamo predisposto un’altra via d’uscita! Basta bere la pozione “giant jump” e aggrapparsi a quella catena che penzola…Non avete neanche la pozione, perché non eravate ancora arrivati alla stanza dove prenderla? Ma cosa giocate a fare???

Altro esempio? In un livello successivo, per aprire una porta basta solo azionare una leva in un lontano corridoio, un’altra leva nella stanza accanto nascosta dietro alle casse, una terza vicino alle scale, e poi di nuovo le altre due in sequenza inversa (e ovviamente ci saranno almeno un’altra ventina di leve sparse nel livello). Com’è che non ci ho pensato subito?

Vi mangiate la coscia di pollo e buttate la chiave della porta in bocca al mostro? Cavoli vostri. Avete sprecato l’incantesimo più forte con un mostro debole e ora siete disarmati col drago? Ahiahiahi. Avete toccato il teleporter prima di raccogliere gli altri oggetti, vi siete trovati da tutt’altra parte del livello e adesso non sapete come tornare indietro? Probabilmente non potete, grazie lo stesso.

Insomma, siete fregati e non potrete mai terminare il livello, ma il gioco non vi avvisa.

Però a Cadaver ci gioco ancora ogni tanto (gira su XP, anche se non benissimo…), Still Life l’ho abbandonato senza riuscire mai a finirlo. Ha una bella storia, ma non è divertente da giocare.

mercoledì 15 ottobre 2008

Roba grossa

Dunque, chi ha presente com’è fatto un flauto dolce granbasso?
Intanto, non molti hanno presente cosa sia un flauto dolce, eccetto che per qualche vaga reminiscenza di un pifferino usato a scuola.

In effetti quello è un flauto dolce soprano, seppure con una diteggiatura semplificata (che viene chiamata “tedesca” per distinguerla da quella originale, barocca).
Ma è solo la punta dell’iceberg.
E’ pieno di flauti di tutte le taglie, davvero. E le diteggiature sono due: in do o in fa, a seconda di qual è la tonalità in cui è tagliato lo strumento.

Ce n’è uno ancor più piccolo, il sopranino in fa, di comune utilizzo. L’ha usato Vivaldi, per il suo Concerto per Flautino (*).
Poi ne esiste anche uno veramente piccolo, il sopranino in do, ma è più una curiosità che altro, e ha davvero il suono di un fischietto.

Il contralto (in fa) è quello che ha conosciuto forse maggior gloria in epoca barocca e ancora nel settecento, poi affiancato dal flauto di voce, tagliato in re per tentare (ahimé inutilmente) di far concorrenza all’astro nascente, il flauto traverso barocco.

Ma non mancano le voci più gravi: negli insiemi le voci sottostanti venivano talvolta coperte dai flauti tenore (in do) e basso (in fa), anche se, ammettiamolo, con poca efficacia. Il flauto dolce ha una voce fievole, sempre meno udibile quando la frequenza del suono diminuisce, e i bassi al contrario devono essere ben sostenuti.

Eppure c’è stato chi ha ostinatamente avuto fiducia in questo strumento, ed è esistito quindi pure il flauto granbasso, in do, che suona un’ottava ancora sotto il tenore.
Che è davvero una cosa bellissima.
E non perché sia grosso e lungo, cari Gae ed Emi. Vi immagino, lì che vi sganasciate per le vostre battute da quattordicenni. E’ tutto merito di…ora vi spiego.

Facciamo un passo indietro.
Il mio amico Emilio ha un problema: vorrebbe comprare tanti strumenti, tanti dischi, tante partiture e così via, ma la moglie sa che lui ha le mani bucate, e per impedirgli di mandare in rovina le finanze di famiglia lo tiene sotto stretta vigilanza.
Quindi ogni tanto lui approfitta della nostra ventennale amicizia e del ruolo da fratello maggiore che ha sempre avuto nei miei confronti (potrebbe essere mio padre per età, ma come cervello certo no) per farmi queste proposte indecenti: far arrivare a casa mia gli strumenti che ordina, all’insaputa della signora, in modo da avere tempo di circuirla e presentarle gradatamente il nuovo acquisto.

Ma l’ultima volta ha giocato un tiro barbino anche a me.

Da tempo si era reso necessario che anch’io fossi pronta a suonare gli strumenti gravi, cosa che di solito non gradisco non per smania di protagonismo ma perché, come si può immaginare, pongono qualche problema di lunghezza di dita e di collo. Non voglio saperne del basso, ad esempio, perché davvero non arrivo agli ultimi buchi in fondo.
Così quando Emilio ha ordinato questo granbasso –un usato d’occasione- era implicito che, sebbene nominalmente fosse per il gruppo, avrebbe finito per suonarlo lui, a cui toccano tutti gli incarichi più ingrati e le figure barbine, noi ce ne approfittiamo perché lui è troppo buono ecc ecc.

Ma ecco, è arrivato questo pacco enorme e io non ho resistito ad aprirlo.
Dentro strati e strati di cartone c’era questa valigetta.
Il flautone era lì smontato, bello lucido, con un buon odore di vernice per legno, il lungo cannello per l’imboccatura, e tante belle chiavi metalliche luccicanti, invitanti…


E’ ovvio, lo strumento è lungo quasi un metro e mezzo, si può immaginare di imboccarlo senza un cannello ricurvo? O di tenerlo su senza tracolla? O di raggiungere i fori senza l’ausilio di tante belle chiavi metalliche luccicanti?
L’ho montato e ho iniziato a suonarlo.
Non è affatto pesante come si può pensare, non ci vuole tanto fiato e ha una gran bella voce. Le dita stanno comodissime, persino più comode che sul tenore! Grazie alle chiavi metalliche luccicanti…eheheh…che fanno clik clak mentre si suona…ooohhh…
Ho dunque sbagliato tutto nella vita fino ad ora?

Ci tenevo a produrre qualche immagine di me con il mio nuovo amore. Con l’autoscatto non è facile far entrare tutti e due nella foto. Più sì che no sono rimasta a mezza figura, oppure troppo vicina e l’unica cosa che giganteggia nel centro dell’inquadratura sono i miei ehm airbag anteriori, e questo non è quel genere di blog, quindi non è adatto.

Tanto per dare un’idea, mostro questa, anche per smentire chi dice che non voglio farmi vedere.


Che guardiii??!

Ecco, soddisfatti?

(*) Il Largo del Concerto per Flautino è un’altra di quelle cose che mi hanno fatto paura da bambina…Aahhh! No! Mi è tornata in mente quella melodia inquietante! EEEKK! Via dalla mia testaaaa!!!

lunedì 6 ottobre 2008

Assassina

Tranquilli...solo nel mio romanzo, il celebre Senza Titolo Vattelapesca.

Ho creato una razza già morta, tutti sterminati migliaia di anni fa da una catastrofe ambientale sul loro mondo e un incidente aereo sull'altro. Che tristezza.

Il che mi porta a riflettere: non sono capace di essere troppo cattiva coi miei personaggi, ho il cuore tenero. Non che non accadano loro cose brutte, non che non li tormenti, ma alla fine hanno sempre una possibilità, anche di redenzione. Mi sa che questo sia un difetto. Sono anche troppo tonta per inventarmi intrighi credibili, troppo tranquilla per storie di odio e di vendetta. Le scene di guerra e di azione pura mi annoiano a leggerle, figuriamoci se so crearle.

E allora cosa diavolo racconto? Devo darmi all'ippica?

In effetti, come nasce Senza Titolo Vattelapesca?
Boh.
Nei lontani anni ottanta, da un miscuglio di cartoni animati (i Puffi, diciamolo), fumetti e puro delirio, mi era sbocciata in testa questa idea molto vaga: il personaggio che non è inserito tra i suoi simili, vive male con loro e sembra disprezzarli, ma quando tutti gli altri vengono catturati dal nemico (che manco sapevo chi sarebbe stato) ecco che il nostro è l'unico che può salvarli, e si sacrifica per loro...

La cosa buffa e insieme inquietante è che, sebbene all’epoca di quella prima (parziale e catastrofica) stesura del mio futuro romanzo non avessi mai letto niente di fantasy, in essa si possono ritrovare riconoscibilissimi stereotipi classici del genere.
Quindi la mia idea di non leggere per non "farmi influenzare" non ha funzionato. Non avevo la più pallida idea di cosa fosse il fantasy, ma pensavo fosse meglio così, almeno non sarei caduta nella tentazione di imitare qualcuno. Invece, ecco lì lo stesso…ma che strano.
Da dove mi sono venuti questi spunti? Mah! Forse non sono in realtà stereotipi "fantasy" ma generici, presenti in ogni storia d’avventura, nelle fiabe…o magari sono archetipi che vivono nell’incoscio collettivo.

Molte cose sono cambiate da allora. Intanto ho letto un mucchio.
Ma non è stato facile neanche questo. Nel 1999 ho incontrato IL libro, quello che fa dire all’aspirante scrittore: va bene, basta, non potrò mai creare una cosa simile, vado a casa.
Quindi per parecchi anni ho abbandonato ogni velleità.

Ma una passione autentica non si fa seppellire, trova il modo di rientrare nella tua vita…
La storia ha continuato a vivere nella mia testa, anche se mi dicevo che era solo per gioco. La trama ha preso forma, l’ambientazione si è delineata e arricchita di particolari, i personaggi si sono staccati dal cartone diventando tridimensionali…e anche prepotenti, devo dirlo. Certi mi hanno presa alla sprovvista. Ad esempio, una gentile cameriera si è rivelata assetata di sangue, una ragazza timida e remissiva ha confessato un’insana ossessione…

Alla fine tutto questo mi ha travolto e ho dovuto rimettermi al lavoro, stavolta sul serio.
Non sono in grado di scrivere qualcosa al livello del libro che mi ha folgorata? Ok, ne prendo atto, allora non mi resta che scrivere qualcos’altro.

I "cattivi" erano il punto dolente di tutta la costruzione, quello che facevano non pareva avere altro scopo che quello di far andare avanti la trama come serviva a me, e questo non va certo bene. Una questione che continuavo a rimandare.
Tra l’altro, non trattandosi di un nemico unico, non avrei potuto nemmeno giocare la carta del poverino che è cattivo perché l’hanno picchiato da piccolo, gli manca l’orsacchiotto ecc ecc (roba che francamente mi ha proprio rotto le scatole: nel mainstream pretendo che il malvagio sia "umano", nel fantasy NO, anzi!).
E un intero popolo deve avere una bella motivazione per mettersi contro tutte le altre razze di un intero mondo.

Per fortuna ho avuto l’illuminazione, forse non sarà un’idea originalissima (no anzi non lo è, però non è neppure così trita e ritrita), ma mi sembra che funzioni.

Vabbè, quante chiacchiere fini a se stesse! Qualunque cosa pur di non lavorare seriamente.