mercoledì 31 dicembre 2008

Il primo giorno di una nuova era

Stamane lo struscio della banda magnetica e il bip della macchinetta al passaggio del cartellino –che possiedo già da cinque anni e mezzo- hanno sancito e consacrato il mio nuovo contratto a tempo indeterminato.

Così, dopo soli dodici anni e diciassette giorni dalla laurea, posso finalmente tirare un sospirone di sollievo e smettere di preoccuparmi della mia fonte di sostentamento.

Non mi sento euforica come dovrei, forse a causa della tensione di un due anni passati ad aspettare il concorso e a temere di rompermi una gamba proprio quel giorno, lo stress degli esami, l’attesa dei risultati ecc ecc. Sono stanca morta.

Poi il sentire certi discorsi mi ha suscitato una riflessione.

Non dovrebbero i lavoratori essere tutti uguali?

Ma se fossimo nel privato…vediamo, mi risulta che dopo un tot di anni passati a contratto per legge si viene assunti, oppure mandati via una volta per tutte, ma in tal caso l’azienda non ci può sostituire tanto facilmente.
E in ogni caso, se il datore di lavoro si sveglia e vuole assumere personale stabile, deve comunque prima regolarizzare i precari di quella categoria, altrimenti non se ne parla neanche, non deve neanche pensare di fare colloqui a gente esterna. E quando li regolarizza, li regolarizza, senza rompere con prove ed esami: se li ha tenuti (e magari riconfermati più volte) fino a quel momento sono persone già selezionate e conosciute, no?

In un’azienda privata sarebbe stato un nostro sacrosanto diritto entrare di ruolo dopo anni di contratti a termine, senza se né ma, e tutti sarebbero stati d’accordo e felici per noi.

Mi sbaglio?

Invece qui siamo degli imbucati, dei raccomandati, gente che è entrata di straforo con un concorso farlocco, in sostanza dei barboni a cui hanno fatto l’elemosina.

Così va la vita, perlomeno in Italia.

Buon anno anche a voi, amici colleghi!

venerdì 26 dicembre 2008

Natale in musica, che divertimento!

I concerti di Natale sono qualcosa di allegro e festoso, che ti riconcilia col mondo, giusto?
Sì, se non si li considera dal punto di vista dei concertisti.

Da quella prospettiva sono un concentrato di tutti i problemi che si manifestano già normalmente nel corso della preparazione di uno spettacolo, il tutto però esacerbato dalla consapevolezza di dover fare i conti con una concorrenza spaventosa nelle stesse serate, dall’impossibilità di rimandare qualora non ci si sentisse pronti, dalla frustrazione dell’avere a che fare con turbe di personaggi che se la tirano da professionisti ma che col cavolo che rinunciano alla gita dell’Immacolata o al pranzo domenicale in famiglia per fare una prova in più.

Vediamo cosa accadeva, tanto per fare un esempio, cinque anni fa, a un concerto a cui io non partecipavo ma che ho rischiato di andare a sentire se il tempo da lupi non mi avesse fatto cambiare idea. Questo è il resoconto integrale mandatomi da un amico il giorno seguente.


Oggetto: grande
Data: martedì 23 dicembre 2003 19.41

grandi nuove!! il tuo amore era a perugia con la squinzia, e si è dimenticato che ieri c'era il concerto! quando se ne è accorto, è partito come un razzo - arriva alla chiesa 10 minuti prima del concerto "ma Gaetano, e il cembalo che dovevi portare?" - parte di corsa, prende il cembalo, lo fa cadere a terra e lo rompe!!
arriva con dei pezzi di legno che non stavano insieme, così lasciamo perdere, proviamo con la pianola del prete ma ha una batteria che non si riesce a togliere, così fa tutto Virginio, incazzato come una lippa per non dire di Giorgio che si era tanto impegnato - un mezzo disastro.
Lui si scusa e scappa via ma Virginio ci raggruppa e dice "ma questa Monica, non è poi così bella, non vi pare?" il peggio è che io avevo fatto una battuta che se non mi conosceste poteva sembrare pesante e contro Gae, invece che affettuosa come il solito, e lei giù con una sghignazzata scomposta ...
Poi Virginio dice che però per i concerti di Pasqua non si facciano scherzi, devi tornare tu, ecc. Qualcuno gli dice ma allora ti piace e lui "meglio la mamma..."!!! Hai capito che roba?
(tristissima la storia del trombonista di Cairo, hai visto che è morto? che tristezza, 39 anni)



Per inciso, il “mio amore” è solo un modo di dire, poiché spesso mi trovo d’accordo con le sue posizioni, in contrasto con altre persone che manifestano in questo modo la loro infantile gelosia. La "squinzia" è Monika (con la k), fidanzata tedesca del Gae.


Il clavicembalo? E’ stato riparato, non temete, e ora suona assai meglio di prima. Non sapete che anticamente i costruttori bagnavano con secchiate d’acqua le tavole armoniche e le lasciavano fuori a gelare, proprio perché si creassero microfratture nella fibra del legno che miglioravano grandemente il timbro sonoro? E ci salivano anche sopra coi piedi…è tutto scritto. Non so dove, ma c’è, chiedetelo a Gae.

Tornando a noi, quest’anno ce la siamo cavata, sebbene la serata (di nuovo lunedì 22!) non fosse iniziata per il meglio.
Attendiamo l’arrivo della seconda macchina per partire tutti insieme, l’appuntamento è presso un distributore. Si può stare in mezzo al piazzale a luci spente? Ovviamente no. Ma il Gae è in ritardo di quasi mezz’ora, bloccato nel traffico poche centinaia di metri più indietro; quando finalmente Gae arriva, ci passa davanti e va, il buon Virginio fa per mettere in moto e seguirlo e invece gneeuwww…la batteria è morta. Che si fa? L’auto di Emi è sotto casa sua, e c’è il problema del chitarrone che di sicuro non ci sta…
Si richiama indietro Gaetano che era già sfrecciato come un missile alla volta di Cairo Montenotte, lui torna, accompagna Emi, noi aspettiamo quasi un’altra mezz’ora, arrivano, si trasbordano bagagli e strumenti e finalmente si parte. Meno male che avevamo preventivato di trovarci in chiesa con largo anticipo! Anche stavolta, come sempre, non c’è tempo di fare una prova intera, visto che già arriva la gente, e anche l’accordatura del clavicembalo è fatta in fretta e furia, vien voglia di buttarlo un po’ in terra e vedere se si mette a posto da solo.

Ma guardiamo il lato positivo: almeno non c’era Giorgio!

domenica 14 dicembre 2008

Il talento e l’impegno

E’ una di quelle discussioni senza fine, non è vero, domandarsi se per eccellere in una disciplina conti di più la predisposizione o il lavoro…ed è anche una questione oziosa, che lascia il tempo che trova.

E’ abbastanza ovvio che il talento da solo non serva a niente, come il minerale grezzo lasciato in miniera, così come ci si può ammazzare di fatica senza mai raggiungere livelli apprezzabili in una disciplina che –a quanto pare- non fa per noi.

Ci sono persone che sostengono che in realtà il talento non esista, sia solo una scusa inventata da chi non ha voglia di sgobbare.
A costoro chiederei come mai a parità di studio non otteniamo tutti lo stesso risultato. Come mai alcuni ottengono ottimi risultati senza studiare affatto. Se hanno mai visto un bambino di cinque anni ignaro di qualunque tecnica prendere una matita e fare un disegno pazzesco…

Nella realizzazione di qualunque attività dobbiamo fare i conti con una componente fisica non facilmente modificabile. Occorrono agilità, coordinamento muscolare, riflessi pronti, grande senso dell’equilibrio, magari altezza e prestanza. Occorre una bella voce, o buona vista.
Che se non c’è, non c’è.

L’orecchio musicale può essere esercitato e affinato, ma quello assoluto è un’anomalia genetica innata. Lo stesso è l’essere stonati (veramente stonati, che non va confuso col non saper cantare): chi nasce stonato ha una percezione distorta degli intervalli musicali, non se ne rende conto e non può farci nulla. E’ l’equivalente sonoro dell’essere daltonico. Inutile insistere.

Ma anche il mio centro del linguaggio può essere più o meno sviluppato e attivo, così come la parte del cervello che si occupa di fare i calcoli, per esempio: ecco che ciò influenzerà le mie attitudini in maniera solo in parte migliorabile con l’esercizio.

Insomma, affermare che tutti possiamo fare benissimo tutto è dire un’enorme boiata.

Potrebbe però essere vero che qualunque persona normodotata, se seguita e stimolata nel modo giusto, può raggiungere un livello minimo di sufficienza anche nelle discipline per cui si credeva negato. Chissà? Mi sto ricredendo.

Mi è capitato tra le mani un libro per bambini che insegna a disegnare figure fumettose. Seguendo le loro indicazioni in pochi tentativi sono passata da disegni come questo
a questo
Migliorerò più di così? Ne dubito, sono una delle persone più impedite del mondo col disegno, ci vuol tutto che non mi infili la matita nel naso e continuo a sedermi sopra la gomma. Ma è stata comunque una soddisfazione.

Ora mi domando: perché mai a scuola non ti insegnano veramente a disegnare con qualche esempio del genere, invece di darti un foglio bianco e mollarti lì ad arrangiarti per andare a chiacchierare con le altre maestre, causando patemi e frustrazioni che ti segneranno per gli anni a venire?

sabato 6 dicembre 2008

Violiniste e numeri primi

E’ da un po’ che volevo parlare del premio Strega, La solitudine dei numeri primi, appunto, di Paolo Giordano.
Esitavo perché mi sto ancora chiedendo che cosa ho letto.
Non un brutto libro, scorrevole, leggero…ma, appunto, non mi ha lasciato nulla.

Non è un romanzo generazionale, che racconti i tipici adolescenti di un certo periodo. Non è neppure una storia strampalata ma in qualche modo emblematica, che offra un aggancio alla realtà quotidiana di noi tutti. E’ la storia di due matti, i cui meccanismi mentali seguono percorsi incomprensibili (perlomeno per me), e che rimangono chiusi a qualunque influenza esterna, senza speranza di miglioramento.
E cosa mi dice un libro così?
E’ come osservare un muro.

Non era iniziato male! I primi due capitoli, dove facciamo conoscenza coi protagonisti, Alice e Mattia -due bambini che stanno vivendo il più brutto giorno delle loro rispettive vite, vittime di altrettanti traumi che li segneranno per sempre-, promettevano bene, ma è finita lì. Perché immediatamente dopo ritroviamo i due, cresciuti e trasformati in psicotici gravi con cui non è possibile alcuna vera immedesimazione da parte del lettore.

E l’autore dovrebbe imparare che se introduco un personaggio che è un cretino irritante, anche se lo riempio di problemi e traumi rimane sempre un cretino irritante, il lettore faticherà a stabilire un contatto emotivo con lui…e se poi tutto si riconduce a finte problematiche autoindotte causate dalla sua stessa cretinaggine e nulla più ecco che viene spontaneo mandarlo direttamente a quel paese.
Ecco, il vero dramma che ho visto io in questa storia è veder accostata l’autentica tragedia di Mattia –segnato a vita da una madre da telefono azzurro- con le paturnie di una fighetta insopportabile, quasi fossero la stessa cosa.

Si va avanti per curiosità, si osservano i due come bestie rare per vedere cosa mai combineranno nella loro situazione di squilibrio mentale, talvolta si prova per loro compassione o rabbia, ma non si viene coinvolti, non è possibile legare emotivamente con personaggi così sopra le righe.

Quello che manca è un punto di vista normale.

A dire il vero manca qualunque altro punto di vista: gli altri personaggi sono macchiette o stereotipi a tutto tondo: la domestica straniera, l’amico gay, la bulletta (*) della scuola bella, ricca e col corteggio di amichette sceme [ehi, ma c’e n’è una anche nel mio Adagio ma non tanto! Disdetta, potevo vincere ioooo!]

E siccome entrambi soffrono di problemi mentali seri da cui è impossibile che escano da soli, è ovvio che non potranno risolvere nulla. Eppure il libro si chiude con un sorriso, come se ci fosse stato un lieto fine. Contenti loro.

Ora passiamo alle pignolerie. Ovviamente sono sciocchezze che mi hanno infastidita dal momento che il libro non mi è piaciuto. Lascio ad altri valutarne l’effettiva gravità.

Ok, ho fatto le superiori più o meno negli stessi anni di Alice e Mattia, lo Scientifico, e non ho mai visto un laboratorio neanche di striscio. Ma va bene, supponiamo che la loro fosse una scuola con corsi sperimentali di biologia eccetera. Arrivo persino a credere che sia normale affidare un bisturi a un diciassettenne. Va bene, diciamo che è così.

Quello che è da incorniciare è il momento della laurea di Mattia: gli stringono la mano e voilà, ecco il diploma originale in pergamena già pronto sul momento, stampato a colori, con le firme (poste in anticipo) di tutti i notabili, il voto che avrebbe dovuto essere stato deciso sul momento…
Proprio non riesco a ricordare quanto ci hanno messo a consegnarmi il mio (ritirato al normale sportello della segreteria, dopo che una gentile lettera mi invitava a togliergli dai piedi in fretta i miei scartafacci prima che finissero nel riciclo), ma sono sicura che i tempi tecnici negli anni ‘90 si misurassero almeno in mesi.
Mi stupisce questa sparata da parte di uno che lavora in ambiente universitario.

E nel finale, Alice che si sdraia nel greto del fiume (magari fosse venuta la piena!), ricordando il giorno del suo incidente nella neve, e pensando che proprio come allora non sarebbe venuto nessuno…
Aveva una gamba a pezzi, frantumata in modo tale che per operarla le hanno lasciato una cicatrice fino sull’addome, non poteva muoversi in nessun modo e si stava assiderando: se non è venuto nessuno a tirarla fuori da là, come fa a essere viva?

Infine, ho trovato il linguaggio e lo stile un po’ troppo asettico, disadorno. Lo so che è quello che va di moda oggi, ma, combinato con le manchevolezze che ho elencato prima, non ha fatto che amplificare (per me) questa sensazione di freddezza e distacco nei confronti delle vicende narrate.
Insomma, già il contenuto è misero, almeno raccontalo bene!

Tutto il contrario di quanto mi è successo subito dopo con un altro libro che tratta anche quello di una malata di mente (pura coincidenza, non è il mio argomento preferito, giuro): Partitura d’addio di Pascal Mercier.

Anche qui c’è una matta, ma siamo su un altro pianeta, sia a livello narrativo che di coinvolgimento.
L’autore non ci abbandona da soli, non ci spiattella lì le turbe assurde della poverina per poi imboscarsi lasciandoci a pensare “boh, ma è scema questa…”, no, nessuno sa cosa accada nella testa della protagonista, nessuno pretende di spiegarlo, ne vediamo solo gli effetti.
La storia è raccontata dal padre disperato, che si sfoga con un occasionale compagno di viaggio appena conosciuto: attraverso di lui viviamo la tragedia di Lea, sprofondata inesorabilmente nella pazzia e nella psicosi, divorata negli anni dall’ossessione per quella che all’inizio era sembrata la sua ancora di salvezza, la musica.

Un libro intenso, straziante: non c’è stato limite ai sacrifici che quest’uomo è stato disposto ad affrontare, nulla che non fosse pronto a tentare per aiutare la figlia, ma paradossalmente proprio la sua condiscendenza, la sua pazienza, le pazzie che egli stesso ha compiuto per lei non hanno fatto altro che accelerarne la fine.

Perché Lea si comportava così? Non lo sappiamo; all’inizio ha perso la madre, certo, ma sin dal primo momento in cui posa gli occhi sul violino il suo atteggiamento appare morboso, ossessivo: la musica non è per lei un sostegno, uno sfogo, una gioia come dovrebbe essere –fatta salva la fatica dell’esercizio- ma al contrario la bambina vi si butta in modo aggressivo, violento, malsano.
Non ci vuole molto a comprendere come nella musica ella comprima una carica autodistruttiva enorme.

Ma, come dicevo, il perché non è importante, un perché a volte non c’è: la psiche di alcune persone è semplicemente fragile di natura. E l’arte, la musica, possono scatenare forze tremende.

Per giustizia, due piccole critiche anche qui.

Immagino proprio sia una goffaggine di traduzione, ma alla quinta volta che ho sentito paragonare la fragile Lea a una “piccola bambina” (contrapposta a…una bambina grande?) ho avuto voglia di urlare.

Rimango perplessa davanti alla necessità di questi violinisti di suonare sempre in piedi e tutto rigorosamente a memoria. Quale sarebbe lo scopo di questa tortura? Siamo qui per sentire la musica o vedere quanto siete bravi voi?
Insomma, se sclerate per fare i fighi, peggio per voi!

(*) Nota: c’è il bullo che ti dice “dammi la merenda o ti spacco la faccia” e quello che ti dice: “se vuoi essere mio amico devi fare questo e quello”…non è proprio la stessa cosa, però, eh? Del primo sei vittima, del secondo NO!