sabato 26 dicembre 2009

Signore e signori…una barba!

La 1° Lezione del Corso di Scrittura di Fabio Bonifacci sottolinea come il fulcro di una buona storia stia nei desideri e nelle paure del/i protagonista/i e nelle situazioni che vanno a toccare questi nervi scoperti: è ciò che muove tutto il baraccone, che permette al lettore di interessarsi alla vicenda, che dà una direzione. (1)

Poi, ovviamente, nella letteratura di genere questo non basta: in un giallo voglio un mistero avvincente, in un fantasy elementi sorprendenti e meravigliosi ecc ecc…ma senza personaggi che valga la pena di seguire, tutto il resto non sta in piedi, è stucchevole come un film fatto di soli effetti speciali. (2)

Ma sai che scoperta! Un concetto così semplice e ovvio che sembra di averlo sempre saputo, cavoli, ma c’era bisogno di un corso, figurati, adesso arriva questo qui…
Poi riguardi alcune storie che non hai mai terminato perché qualcosa non girava giusto, e ti accorgi che…

Ecco, ho ripreso in mano un inizio di storia che stavo scrivendo a 18 anni o giù di lì. Bella pimpante, dopo aver concluso la primissima bozza di quello che molti anni dopo sarebbe diventato Adagio ma non tanto, mi ero lanciata nella nuova storia senza pensarci, ottimista. Allora non avevo alcuna velleità, scrivevo solo per me, non mi importava che l’ambientazione fosse verosimile e non prestavo attenzione allo stile. Stavo solo giocando.
Eppure, anche lavorando con la massima rilassatezza possibile, e avendo tutta la trama chiara in mente, quel racconto mi era morto tra le mani, e non per la mia solita pigrizia. Proprio non scorreva, qualcosa non mi piaceva.

Il personaggio principale, ecco cosa non va. Non vuole niente, non fa nulla di significativo, rimane coinvolto in un problema che in realtà riguarderebbe altri e se ne fa carico all’inizio per amicizia, ma poi se la prende troppo a cuore e non si capisce per quale motivo, chi glielo fa fare.

Anche Milly, in Adagio ma non tanto parte lancia in resta per difendere un’amica dalla bulletta della scuola, ma si capisce benissimo quali sono le sue motivazioni, il carattere del personaggio è già ben delineato in precedenza e il suo comportamento è del tutto logico, ci si aspetta proprio che si comporti così.

Il sedicente protagonista di questa storiaccia invece annaspa, si fa sballottare di qua e di là, si agita senza una direzione. Questo perché nemmeno io capisco cosa abbia in testa e lo uso male, gli faccio fare cose richieste perché dalla trama, non perché è naturale che le faccia. Gli eventi si succedono in modo meccanico, c’è sì un crescendo eppure manca la tensione, non si crea empatia. Neanche con me, che infatti l’ho piantato lì.

Ora mi è venuta voglia di riprendere il germe di questa storia e ricucinarlo in salsa fantasy.
NO, UN MOMENTO: non mi rifugio nel fantasy per ignoranza, per non faticare a studiarmi un’ambientazione convincente e realistica. Condivido l’opinione crostacea che l’elemento fantastico debba essere indissolubilmente interconnesso alla trama e ai personaggi, e che una storia “fantasy” che si può trapiantare tale quale nel Far West o alla corte di Luigi XIV cambiando di nome a quattro cose non sia un vero fantasy.

Ma mi sono venute delle (spero belle) idee e la voglia di utilizzarle. Perché accontentarsi di una vecchia zia bisbetica quando si può avere una matriarca guerriera con esercito a seguito? Cosa me ne faccio di una polverosa biblioteca se posso visitare un luogo che regala chiaroveggenza in cambio di un oneroso sacrificio…?
Ora ci lavoro.

Devo solo trovare quel maledetto desiderio per il mio stupido protagonista e poi posso iniziare.

Sempre che non decida invece di licenziarlo.

Occhio, personaggio, ché rischi il posto!!!

(1) Descrivere un anno di vita di una che muore di noia e che non sa fare niente NON E’ alta letteratura minimalista!
(2) Ecco perché non mi è piaciuto Abarat: nonostante la fantasia dell’ambientazione e le molte trovate bizzarre, la protagonista è una tale ameba ottusa che l’interesse per le sue avventure (almeno per un lettore adulto) è meno di zero.

giovedì 17 dicembre 2009

In dulzi giubilo

Siamo di nuovo al lavoro per i concerti di Natale.

Stavolta il Gae ha ingaggiato un quartetto di cantanti, cosa che ci regala più libertà di orchestrazione e la possibilità –nuova ed eccitante- di suonare gli strumenti giusti per la parte.

L’anno scorso mi ero lamentata di aver dovuto usare il granbasso (un tubone simpatico ma che come potenza di suono può esser facilmente sovrastato da un sospiro), in un contesto di trombe e organi scatenati che lo rendevano del tutto superfluo, mentre per contro l’organista metteva i registri coi flautini acuti che il “maestro” non lasciava usare a noi perché disturbavano la cantante?
No, stavolta suoniamo soprano e contralto, voilà! Non ci si sente lo stesso ma almeno ci divertiamo.

E il diapason? Dovevamo morire per raggiungere gli altri, che avrebbero potuto invece scendere un pochino per noi, ma no, per andare dietro al 440 rigoroso dell’organo? Stavolta seguiamo invece il buon senso e ci accordiamo cercando il compromesso, tanto l’organo non c’è.

L’organo: ecco da dove deriva tutto il male del mondo…

Caspiterina!
Ma Gae sta facendo tutto quello che ho detto io?

Alla prova ho avuto un momento di panico, colta da questo dubbio tremendo. Come poteva il mio amico sapere di cosa mi ero lamentata? Come aveva fatto a giungere alle mie stesse conclusioni? Aveva mica letto questo blog? Stavo diventando io più intelligente (mai come lui, no)?

Per fortuna è rientrato in carreggiata quasi immediatamente.
Ha ricordato alla soprano, mezza tedesca, la corretta pronuncia del testo, che lei avrebbe dovuto insegnare e inculcare per bene anche agli altri. La pronuncia del latino, si è raccomandato, come se fosse tedesco. Perché così si faceva all’epoca, secondo lui.
Gae ripone molte speranze in questa cantante, l’ha scelta apposta per questa sua caratteristica. Quella dell’anno scorso non andava bene. Si era impegnata, sì, ma –poverina- non era tedesca. Si può arrivare fino a un certo punto.
Ne ha convenuto anche la clavicembalista –pure lei mezza germanica- e tutti e tre si sono messi a commentare in lingua teutonica, alla faccia del resto della compagnia. E cosa si saranno detti?
Che noi non siamo ariani? Che Emi è troppo scuro di capelli, e io ho un cognome meridionale?
Ci permetteranno di suonare con loro?

Sì, lo so, non è carino assimilare sempre i tedeschi ai nazisti. Ma in passato ci siamo già trovati a suonare per i massoni. E a uno stand della Lega. Ampliamo il curriculum. Proviamo coi cannibali la prossima volta?

Aggiornamento: Emi temeva che, all’arrivo nell’insieme dei due professionisti che ci avrebbero raggiunto solo per la prova generale (e che avrebbero suonato le nostre stesse parti), sarebbe finita come quando da militare, dopo avergli fatto fare tutti gli allenamenti, al momento della partita era stato messo da parte, addirittura senza lasciargli neanche indossare la maglietta. Io lo smentivo, fiduciosa. Si sarebbe trovata una soluzione, un’alternanza nei pezzi per non scontentare nessuno, pensavo. Invece ha avuto quasi ragione lui: basta flautini, riprendete i flautoni così non disturbate, non sia mai che siate più acuti del cornetto…
Questa è la volontà del Maestro e noi ci adeguiamo, sebbene a malincuore, perché lui può tutto, e la sua parola è il principio e la fine di ogni cosa.
Alpha es et O.

sabato 5 dicembre 2009

Epifania oscura

Non ho più scritto! E’ un delitto! Sono fritto!...No, fritta. Acc porc le concordanze mai che ti lascino fare una rima…

Non mi riferisco tanto a questo blog né agli altri che sto tentando di iniziare. Parlo del romanzo.
Ho qualche buona scusa.

***Inizia qui flusso incoerente di parole***

Serate e weekend passati inginocchiata ad appiccicare giornali sul battiscopa, a spennellare la parte in basso dei muri e i contorni delle porte, mi fregano sempre tutti, quando arrivi col treno vieni un attimo nella casa nuova parliamo di due cose e poi mi trovo sulla scala a scartavetrare e non si parla per nulla, quando non andiamo dall’amministratrice, sul tetto, in giro per i mercatini dell’usato più eleganti mobilifici della provincia.
Quasi non ricordo come sia fatta la casa vecchia, non rispondo più alle mail, non ho ancora mandato il commento all’antologia, sollecitatomi dall’editore, faccio brutte figure con tutti. Torno solo a dormire e anche la gatta ne risente, povera ciccetta a strisce.
L’autore di questo blog avrà la mia sempiterna gratitudine per avermi distolta dall’incauto proposito di acquistare una casa ancora da ristrutturare. L’appassionante (e agghiacciante) saga “Edilizia for Dummies” dovrebbe essere lettura obbligatoria per chiunque si accinga a un’impresa del genere.
Non è mia intenzione paragonare qualche risibile contrattempo con l’impresa titanica narrata su quelle variopinte pagine, però…mi pare che nemmeno questo tizio abbia provato il brivido eccitante dello scoprire, a meno di un quarto per il completamento della quarta parete da tinteggiare, è innegabilmente, irrimediabilmente, tragicamente finita la pittura.
Mia madre e l’amico di famiglia che ci sta aiutando sono andati all’Iper di corsa a prenderne altra, alle sei di sera di domenica, c’era tutto il mondo, hanno impiegato una vita e io sola nella casa ancora sconosciuta, al freddo e al buio (non erano solo le lampadine da 100W a essere uscite di produzione? Come mai non se ne trovano più di nessun tipo? Cosa metterò nelle abat-jour?) e stavo perdendo la speranza. Ecco, mi ha portata nella nuova dimora e se n’è andata, come mamma orsa. Solo che qui non ho da mangiare, non ho il letto, fuori diluvia…

***Qui finisce il flusso incoerente di parole. Dovrebbe notarsi una differenza***

Ma chi voglio prendere in giro? Avevo già interrotto il romanzo prima. Una scena mi ha precipitata nel panico. Una nuova consapevolezza tremenda, anzi orribile. Una epifania oscura, come dice il titolo. Probabilmente c’è un altro modo, un termine preciso per indicare questo, ma io per l’appunto non lo conosco, perché…

Non so descrivere. Non so dare l’idea di come sia fatto qualcosa. Ho sempre considerato così noiose e superflue le descrizioni fisiche degli ambienti e dei paesaggi da leggerle, per così dire, con un occhio solo, e non ne ricordo mezza! Non ho imparato nulla, e ora ne pago lo scotto. Non conosco le parole giuste.

Che pizza tutti ‘sti nomi di piante, come faccio a riconoscerli, non sono mica una fiorista.
Chi li distingue i tessuti, non sono mica una sarta.
Cosa mi importa dei dettagli dell’edificio, non sono mica un architetto.
No, non sono…né…neanche questo…e nemmeno…
No. Sono…UN POZZO DI IGNORANZA!
Come posso aver anche solo pensato di scrivere un libro con questi presupposti? Per riempirli di “cose così”, di “affari lì”, e “specie di tipo di cosi”?

Ecco perché mi annoiavo nelle descrizioni altrui: era proprio colpa mia se non ci capivo un tubo!

Cosa faccio adesso? Scopiazzare? Andare a cercarmi i passi descrittivi nei romanzi degli altri, copiarli in un quadernetto e rimescolare le frasi? Sì, magari col Polygen!

Be’, alcuni l’hanno fatto con trame e personaggi e ha funzionato egregiamente…