sabato 28 marzo 2009

Titolare

So che dovrei preoccuparmi di scrivere il romanzo invece di perdermi di questioni oziose…ma non avere un titolo mi disturba un po’. Chiamarlo Vattelapesca è anche irrispettoso. Poverino.
Ma…coi titoli non ho confidenza, faccio sempre fatica.
Ed è importante sceglierlo bene, è il tuo biglietto da visita, caro romanzo.

Insomma, voglio evitare, se possibile, il classico:

Il/La [nome] di [altro nome]

Iperstrausato, non se ne può più. Anche perché nel fantasy può raggiungere vette di ridicolo inimmaginabili.
Vai di Polygen!

L'alba del caos
La sfida dell'inverno
La fortezza delle stelle
Le scarpe del fuoco
La maledizione della notte


Una struttura talmente banale e ormai noiosa che non mi viene in mente proprio niente. Devo sganciarmi da questo modello!

Naturalmente ci sono anche quei titoli secchi, autoassertivi, formati da una sola parola.

(Il/La) [nome].

Caspita, è impegnativo. Per trovarne uno così bisogna che nella storia ci sia una qualche idea forte, un luogo o un oggetto significativi, oppure un personaggio.

Ecco, proviamo…

Il lago Lumina.

Cioè? mi domanda la mia alter ego criticona e scettica. Perché il lago ha l’onore del titolo? Racchiude un mistero, vi si svolge la storia, è un luogo mitico?
Mah, è lì nel centro della mappa, e qualcuno poi ci fa il bagno e ci va in barca…
No, luoghi e oggetti così fondamentali non ce ne sono, l’unico filo conduttore di tutto è il personaggio, ma il suo in copertina sarebbe interessante e attraente quanto il mio. E chi è, chi la conosce? No, non mi convince.

Il/La [nome] [aggettivo] non è molto meglio.

A me piacerebbe inventare un titolo particolare, strano, magari formato da una frase intera, che si capisca che è il titolo di un fantasy ma che esca dai soliti schemi.

Appunti per Clari. Ma non è vero che prendono tutti appunti per Clari, è solo uno dei narratori che si rivolge a lei, e poi Clari non c’entra niente.
Siamo tornati a casa. Buon per voi.
L’uovo rosso. Mah! Bisogna leggere tra le righe per capire cosa significa…
L’erede mancata.

Uhm…quest’ultimo non è male.
Ci penserò. Intanto a occhio e croce devo scriverne ancora ¾.

Nota: A proposito di Polygen, pare proprio che il sito sia stato definitivamente chiuso…sono sempre i migliori che se ne vanno!

Nota n. 2: La settimana prossima vado a farmi sparare con un raggio laser. Forte, eh?

Ma non così!!!

domenica 22 marzo 2009

Mea Culpa

Avendo sotto gli occhi varie liste –alcune spiritose, altre decisamente irritate- dei tipici cliché del fantasy da evitare perché ormai hanno stufato, posso sì gongolare per averne evitato la maggior parte, ma ahimè sono costretta a rendermi conto di averne comunque usati due dei più terribili e ritriti, che non posso più eliminare in quanto presupposti su cui si fonda tutta la prima metà della storia, e che rischiano di alienarmi le simpatie dei potenziali lettori sin dalla sinossi.

Il mio protagonista è orfano, e lo è proprio a causa dei nemici che andrà poi a combattere.

Il mio protagonista è l’erede al trono e non lo sa.


Ho pronte un sacco di scuse ottime giustificazioni, però! E posso elencare altri elementi di originalità che invece rendono la situazione meno prevedibile di quanto ci si potrebbe aspettare! Non scappate subito!

Ok, questo mio personaggio –chiamiamola Marilla e via- ha perso entrambi i genitori a causa dei nemici (che non è la stessa cosa di “uccisi dai nemici”, attenzione) e viene allevato da un’altra persona in un luogo isolato. Ma almeno questa persona non è un mago, non è un mentore, non è un vecchio saggio: solo un’ex-maestra (nemmeno anziana, per inciso) che si è ritirata in campagna per stare in pace, per motivi suoi. Non è perseguitata né in pericolo, non ha oscuri segreti né una doppia identità e neanche poteri soprannaturali. Insegna a Marilla solo cose normali. Una barba? Vedremo.

Anche sulla storia del trono si può glissare, credetemi. Non è un colpo di scena, lo sanno tutti tranne lei, e quando finalmente anche Marilla lo capisce non le servirà a niente. Perché nel frattempo succede…uno spoiler.


Aaaahh che paura, uno spoiler!

Marilla non diventa una guerriera in una settimana, né in un mese, né mai. Non posso garantire che non combatta neanche una volta, anche se questo sarebbe il mio desiderio, perché alla fine non è che proprio il romanzo mi obbedisca sempre. Ma diciamo che, se lo farà, sarà una zuffa accidentale. Non è una maga, non è una ladra, non è una prostituta, sacerdotessa, venditrice di caldarroste.
E cosa fa Marilla?
Gli affari propri, o almeno lo vorrebbe…
E, incidentalmente, non è neanche una donna.
Cosa avete capito?! Marilla è un ermafrodito, come tutti quelli della sua specie.

E sta anche zitta perché io non le concedo mai la parola. Non è muta, anzi. Ma non vediamo mai il suo diretto punto di vista, i narratori sono altri e ciascuno si è fatto di lei un’idea diversa.

Ora potrei anche parlare di questi narratori e magari postare qualche pezzettino per dare un’idea, ma se passa di qui uno di quei terribili ladri di romanzi di cui Internet pullula? Sono molto fiera di questo mio approccio originale alla narrazione, e se qualcuno mi copia lo schema? No, no e no!

Ladro di romanzi all’opera.

giovedì 12 marzo 2009

Fuori programma (e fuori di testa)

Cosa si intende esattamente per “fuori programma”?
Qualcosa di non previsto, giusto?
Ma…in che senso?

Nel corso della mia attività artistica ne ho viste delle belle. Tuttavia si può semplificare. Gli “imprevisti” sono sostanzialmente di due tipi.

Tipo 1: in pubblico.

Ci si sta arrangiando come al solito. Ci hanno portato via il tavolo e le luci lasciano a desiderare, ma va bene. Per fortuna l’amplificazione è decente.
Cominciamo, ma pochi minuti dopo succede qualcosa. Ad esempio, uno scroscio di pioggia; metà del pubbli­co fugge per cercare riparo sotto al porticato. Noi resistiamo eroicamente, leggendo a malapena gli spartiti punteggiati di pioggia, possiamo farcela. Ma il palco è sdrucciolevole, i ballerini rischiano di farsi male. Si decide allora per una pausa, passato l’acquazzone, per asciugare un po’.
Ci suggeriscono di suonare qualcosa per riempire la pausa, ma subito qualcun altro dice invece che la scena è volutamente silenziosa. Poi giunge la maestra di danza a chiedere perché non stiamo suonando. Insomma, occorre un “fuori programma”.
Si fa così.
Qualcuno che ha autorità o si illude di averla, tipo Gaetano, propone qualcosa.
«Facciamo il pezzo A» dice.
Il pezzo A, essendo tutto ciò un “fuori programma”, appunto, non fa parte del repertorio preparato dell’occasione, oppure era previsto in un altro punto, quindi lo spartito va cercato nel quaderno. Passano alcuni minuti prima che tutti abbiano la musica giusta davanti e lo strumento necessario in mano. Però allora il presunto leader entra in una fase di pentimento per ciò che ha detto poco prima, e cambia opinione:
«Ma no, facciamo invece il pezzo B!»
Identici problemi per il pezzo B.
Quando siamo di nuovo pronti è qualcun altro, tipo Giorgio, a prendere la parola scuotendo la testa.
«Però il pezzo B non viene mica tanto bene. Ti ricordi che dovevamo ancora sistemarlo, decidere questo e cambiare quell’altro?»
Il capo non tanto capo ci pensa su.
«Hai ragione. Allora niente, facciamo A.»
Si torna ad A e ci sono gli stessi guai dell’inizio. In più, sicuramente almeno uno di noi, credendo che il pezzo A fosse definitivamente passato di moda, l’ha gettato via, o l’ha tolto dal quaderno, o lo ha nascosto in una busta insieme ad altro materiale di riserva; insomma, non lo trova più e dopo vane ricerche deve affrettarsi a leggere sul quaderno del vicino.
A questo punto ci vengono a dire che il tempo morto che avremmo dovuto coprire è finito.

Tipo 2: in privato.

«No, Aurelio! Possibile che tu non capisca? Ci stai mandando fuori. Guarda che non devi suonare contro di noi, ma con noi. Lo capisci? Noi non siamo né rivali su cui primeggiare, né il tuo sottofondo su cui tu puoi fare i tuoi voli pindarici...»
«Ma a me sembrava...»
«E sbagli! Tu hai l'idea che noi siamo il basso continuo e tu la voce di canto, che tu solo sei importante! Ma non é così!»
«Però...»
«Tu non sei la prima voce; sei solo la voce più acuta. Qui non facciamo musica barocca...Qui é fondamentale l'armonia piuttosto che la melodia. Lo dovresti sapere. Qui ci sono cinque voci assolutamente paritarie che devo­no intrecciarsi in modo organico e formare un'armonia...che non c'é se tu spari lassù in cima!»
«Ma io ho letto su quel libro che...»
«Non puoi aver letto una cosa simile. Noi dobbiamo essere come delle canne di uno stesso organo...dobbiamo suonare insieme e fonderci perfet­tamente senza che nes­suno prevalga sugli altri. Noi quattro ci stavamo riuscendo, prima che tu iniziassi a zufolare così forte!»
«Ah, quindi sarebbe colpa mia?»
«E mi permetto di ricordarti anche che gli abbellimenti che fai non sono sempre quelli ideali. Sono troppi, oltretutto»
«Bene. Poi basta?»
«Non ti sei accorto che gli ultimi erano totalmente fuori? Se vogliamo inserire degli abbellimenti bisogna che lo facciamo in modo sistematico, dobbiamo metterci a ta­volino e stabilire gli abbellimenti per ogni voce in modo che si incastrino a vicenda. Tutte le voci meriterebbero di essere abbellite, ma se ci mettiamo a fare questo non finiamo più, perciò fin dal­l'inizio abbiamo detto...forse non hai sentito...di lasciar perdere e di dedi­carci ad altre cose»
«Mi pare non ci fosse niente che non andava in questo ultimo sistema. Ho aggiunto delle normali diminuzioni, le solite...»
«AURELIO!!! Non discutere! Facevano schifo! Erano fuori tempo, rovina­vano gli ac­cordi, distruggevano tutti gli incastri delle dissonanze, non fa­cevano capire niente dell'armonia! E oltretutto per fare quegli schifi perdi il tempo e ti trovi sempre indietro di un quarto!!! Non so come ti permetti di rovinare l'arte del Maestro con le tue por­cherie!»
«AH, QUINDI SONO IO CHE TI HO ROVINATO QUESTA MERAVIGLIA? ALLORA GUARDA COSA NE FACCIO!!!»
(straaap...)

martedì 3 marzo 2009

Letteratura d’evasione…un paio di stivali!

Ecco, avevo tanti progetti per i prossimi post: sui miei personaggi, sulla mia tecnica narrativa, sulla musica, sulle scemate e sulla gatta, e avevo anche un articolo già pronto su un film che avevo visto tanti anni fa e solo ora sono riuscita a ritrovare. Ma…no! Il mio amico collega Sandro mi tampina in continuazione mentre lavoriamo, mi fa gli agguati nei corridoi e mi umilia davanti a tutti perché vuole che riveli qual è il libro che mi è piaciuto tanto.
A nulla serve ricordargli che è un fantasy, quindi non il suo genere, che non credo si trovi in italiano e che comunque non piace mai a nessuno. Che, soprattutto, volevo terminare la rilettura e preparare una recensione approfondita…
Va bene! Basta! Ecco com’è andata!


Nel millennio scorso ero a circa 2000 km da casa e non mi stavo divertendo affatto.
Intanto, non stavo concludendo un bel niente nel lavoro che avrei dovuto fare (e che nessuno dei cervelloni in carica aveva ben chiaro cosa fosse, figuratevi che ne sapevo io), il che, quando già il rimanere lì ti costa un certo tipo di sacrificio, è proprio una bella soddisfazione.
Le compagne di casa maleducate facevano chiasso, la finestra aveva spifferi tali che sembrava di stare nella galleria del vento e dovevo dormire col berretto. Avevo pochi soldi. Ero completamente sola, non mi ero fatta neanche la parvenza di un’amicizia e le telefonate a casa erano spesso le uniche occasioni che avevo di ascoltare la mia stessa voce.
Mi mancavano la gatta, la mia stanza, la musica, i libri…tutto tranne mia madre (che poi era il principale motivo che mi aveva spinta a partire).

Eppure è vero che dai momenti neri può nascere qualcosa di bello.

Ad esempio, all’ultimo anno di università ho bisticciato col professore con cui avrei dovuto fare la tesi, e che mi aveva trattata male; ero così disperata e furiosa che ho trovato il coraggio di avvicinare un altro prof che sarebbe stata la mia prima scelta ma a cui prima non avevo osato chiedere dato che sapevo che pretendeva una media altissima e altri requisiti che non avevo…sono riuscita a farmi prendere lì e ho fatto la tesi che desideravo davvero, cosa che non avrei ottenuto senza quella delusione precedente.
Vabbè, questo non c’entra niente.

Ho imparato a leggere libri in inglese, non sapevo cos’altro fare per resistere alla tentazione di buttarmi a mare.

Ecco, in quel periodo infransi quel mio proposito molto intelligente di non leggere fantasy per non farmi influenzare nella creazione del mio romanzetto. Ero così malinconica che decisi proprio di darmi al fantasy per divertirmi -non nel senso di ridere (ancora non sapevo dell'esistenza di Terry Pratchett), ma per distrarmi, staccarmi dalla dura realtà della mia vita in esilio.
La biblioteca di Cardiff aveva una vasta sezione di fantasy –che nel Regno Unito non è considerata stupidaggine da bambini- ma scoprii con sgomento che erano tutte saghe interminabili e per lo più incomplete.

Così scelsi in base a questo principio: doveva essere disponibile il primo volume.
E magari anche gli altri, ma a questo avrei pensato dopo. L’importante era cominciare dal principio, echeccavolo, ci vuole ordine!

Se avessi scelto, che so, Drangonlance, tanto per dire, credo proprio che la mia vita avrebbe preso una piega differente.

Ma l’unica trilogia completa sugli scaffali era The Chronicles of Thomas Covenant the Unbeliever, di un certo Stephen Donaldson. Erano tutti sconosciuti per me, l’uno valeva l’altro, e questo titolo sobrio mi attirava. Niente donnine in copertina, nessun accenno a draghi ed elfi. Buono, no?

Così mi portai via Lord Foul’s Bane e quella sera mi sedetti rilassata a leggerlo pregustando un’avventura rilassante e poco impegnativa.

Come uno un po’ depresso che pensa: “Ora mi guardo una puntata di Futurama per farmi quattro risate!” e si becca l’infame Jurassic Bark. Che non mi ricordo come si chiama in italiano. Ma se l’avete vista sapete qual è.